da oggi Il Siculo si arricchisce di una nuova rubrica di politica internazionale, verranno analizzati i più importanti fatti europei ed extraeuropei, con il contributo teorico della rivista di geopolitica LIMES.
1 Puntata: L'IRAN
L’Iran è ormai nel mirino di Bush. Nessuna decisione finale è stata presa alla Casa Bianca, ma il cerchio intorno a Teheran si sta stringendo. I piani d’attacco contro i siti nucleari, ma anche contro le infrastrutture militari (e non solo) del paese sono pronti e vengono continuamente aggiornati. Se il presidente darà luce verde, aerei, navi e missili americani, con l’accompagnamento di azioni più o meno coperte di commandos, scateneranno l’inferno.
Obiettivo massimo (quasi impossibile): un colpo di Stato che porti al potere una presunta fazione amica degli Usa; obiettivo minimo (più che possibile): liquidare per il tempo prevedibile la potenza iraniana e forse l’Iran in quanto Stato, eccitando i separatismi etnici, in particolare quelli curdo, baluci e arabo. Insomma, l’Iran verrebbe degradato da potenza regionale a failed State in qualche settimana di bombardamenti. Il tutto prima di marzo, quando nelle elezioni iraniane “rischiano” di prevalere gli avversari di Ahmadinejad, più o meno “centristi” e moderati: a quel punto qualsiasi attacco sarebbe difficilmente presentabile all’opinione pubblica americana e mondiale.
La guerra – non i semplici strike – è l’opzione di Cheney, contrastata da quasi tutto il Dipartimento di Stato e da parte del Pentagono. Il recente riferimento di Bush alla “terza guerra mondiale” come conseguenza della produzione di una bomba atomica persiana può essere inteso come il segno di un’escalation propagandistica che prepari il suo pubblico alla guerra, ma anche come una pressione sugli alleati europei affinché accettino un nuovo round di sanzioni contro Teheran, fuori dal Consiglio di Sicurezza, dove il veto russo è certo.
I sostenitori americani della guerra spiegano che in questo confronto gli Stati Uniti hanno messo in gioco tutto il loro residuo prestigio. Dopo aver detto e ripetuto che non tollereranno mai un Iran atomico, non possono permettersi di essere smentiti. Altri sostengono che c’è di più: da troppo tempo l’America è concentrata sul Medio Oriente, contro il “terrorismo islamico” e i suoi protettori. Un nemico non strategico.
Non è possibile occuparsene ancora a lungo, mentre la Russia rialza la testa e la Cina si convince di essere destinata al rango di superpotenza del XXI secolo. Le due scuole di pensiero non si escludono, anzi convivono nell’idea di dover comunque chiudere la partita iraniana e quindi mediorientale. E di dover riaffermare, con uno straordinario show di potenza militare, la primazia degli Stati Uniti nel mondo.
Così inteso, il possibile attacco all’Iran è il colpo di coda, probabilmente tardivo, dei teorici del “momento unipolare”, ossia di chi crede che dopo la fine della guerra fredda gli Usa siano abilitati a dettare la loro agenda al mondo. Che i fatti abbiano smentito questa ambizione, poco importa a chi è sinceramente pervaso dalla fede nella missione americana e nella necessità di svolgerla, se necessario, senza o contro il resto del mondo.
In Iran, dopo un lungo periodo di indifferenza o di incredulità, le diverse leadership del paese, sia la clericale che la militare (sempre più potente), stanno adattandosi all’idea che l’attacco ci sarà. Chi si attiva per scongiurarlo – in particolare i pragmatici attorno a Rafsanjani, alleati con ciò che residua del riformismo khatamiano – chi invece lo auspica: Ahmadinejad e la sua cerchia di fedelissimi, sinceramente messianici nella loro visione del mondo. La guerra infatti rafforzerebbe il presidente e costringerebbe i suoi oppositori (ve ne sono molti persino fra i pasdaran) a serrare le fila per il supremo bene della patria. Sempre che l’attacco si esaurisse presto e quindi non devastasse completamente il paese (come invece vorrebbe Cheney).
In questa partita, come al solito, gli europei contano poco o nulla. Il fatto che la Francia, portatrice di un’idea sacrale del Consiglio di Sicurezza in quanto membro permanente con diritto di veto, prema per sanzioni anche esterne all’Onu, significa che Sarkozy si è convinto, dopo la vacanza americana, che un attacco Usa all’Iran sia inevitabile. Le nuove sanzioni probabilmente non serviranno, e a quel punto la scelta finale passerà nelle mani di Bush. Non è scontato che sia la guerra, ma intanto tutti si preparano al peggio, anche chi spera sia ancora possibile evitarlo
1 Puntata: L'IRAN
Obiettivo massimo (quasi impossibile): un colpo di Stato che porti al potere una presunta fazione amica degli Usa; obiettivo minimo (più che possibile): liquidare per il tempo prevedibile la potenza iraniana e forse l’Iran in quanto Stato, eccitando i separatismi etnici, in particolare quelli curdo, baluci e arabo. Insomma, l’Iran verrebbe degradato da potenza regionale a failed State in qualche settimana di bombardamenti. Il tutto prima di marzo, quando nelle elezioni iraniane “rischiano” di prevalere gli avversari di Ahmadinejad, più o meno “centristi” e moderati: a quel punto qualsiasi attacco sarebbe difficilmente presentabile all’opinione pubblica americana e mondiale.
La guerra – non i semplici strike – è l’opzione di Cheney, contrastata da quasi tutto il Dipartimento di Stato e da parte del Pentagono. Il recente riferimento di Bush alla “terza guerra mondiale” come conseguenza della produzione di una bomba atomica persiana può essere inteso come il segno di un’escalation propagandistica che prepari il suo pubblico alla guerra, ma anche come una pressione sugli alleati europei affinché accettino un nuovo round di sanzioni contro Teheran, fuori dal Consiglio di Sicurezza, dove il veto russo è certo.
I sostenitori americani della guerra spiegano che in questo confronto gli Stati Uniti hanno messo in gioco tutto il loro residuo prestigio. Dopo aver detto e ripetuto che non tollereranno mai un Iran atomico, non possono permettersi di essere smentiti. Altri sostengono che c’è di più: da troppo tempo l’America è concentrata sul Medio Oriente, contro il “terrorismo islamico” e i suoi protettori. Un nemico non strategico.
Non è possibile occuparsene ancora a lungo, mentre la Russia rialza la testa e la Cina si convince di essere destinata al rango di superpotenza del XXI secolo. Le due scuole di pensiero non si escludono, anzi convivono nell’idea di dover comunque chiudere la partita iraniana e quindi mediorientale. E di dover riaffermare, con uno straordinario show di potenza militare, la primazia degli Stati Uniti nel mondo.
Così inteso, il possibile attacco all’Iran è il colpo di coda, probabilmente tardivo, dei teorici del “momento unipolare”, ossia di chi crede che dopo la fine della guerra fredda gli Usa siano abilitati a dettare la loro agenda al mondo. Che i fatti abbiano smentito questa ambizione, poco importa a chi è sinceramente pervaso dalla fede nella missione americana e nella necessità di svolgerla, se necessario, senza o contro il resto del mondo.
In Iran, dopo un lungo periodo di indifferenza o di incredulità, le diverse leadership del paese, sia la clericale che la militare (sempre più potente), stanno adattandosi all’idea che l’attacco ci sarà. Chi si attiva per scongiurarlo – in particolare i pragmatici attorno a Rafsanjani, alleati con ciò che residua del riformismo khatamiano – chi invece lo auspica: Ahmadinejad e la sua cerchia di fedelissimi, sinceramente messianici nella loro visione del mondo. La guerra infatti rafforzerebbe il presidente e costringerebbe i suoi oppositori (ve ne sono molti persino fra i pasdaran) a serrare le fila per il supremo bene della patria. Sempre che l’attacco si esaurisse presto e quindi non devastasse completamente il paese (come invece vorrebbe Cheney).
In questa partita, come al solito, gli europei contano poco o nulla. Il fatto che la Francia, portatrice di un’idea sacrale del Consiglio di Sicurezza in quanto membro permanente con diritto di veto, prema per sanzioni anche esterne all’Onu, significa che Sarkozy si è convinto, dopo la vacanza americana, che un attacco Usa all’Iran sia inevitabile. Le nuove sanzioni probabilmente non serviranno, e a quel punto la scelta finale passerà nelle mani di Bush. Non è scontato che sia la guerra, ma intanto tutti si preparano al peggio, anche chi spera sia ancora possibile evitarlo
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