(articolo pubblicato su La Repubblica il 5/1/09)
Ci sono problemi che si possono risolvere e problemi insolubili. Da tempo gli apparati di sicurezza israeliani, più influenti dei governi anche perché più stabili, hanno deciso che la questione palestinese appartiene alla seconda categoria. Non ha soluzione. Quindi a rigore non è un problema. È una crisi permanente da gestire perché non diventi troppo acuta. Talvolta con terapie d´urto, come oggi a Gaza.
Per capire la guerra in corso, conviene inquadrarla sullo sfondo dell´opzione strategica perseguita da Israele a partire dal fallimento del vertice di Camp David e dei colloqui di Taba sullo "status finale", nel 2000-2001. Da allora, l´establishment di sicurezza israeliano, appoggiato dalla Casa Bianca, ha affrontato il problema/non problema palestinese a partire da tre postulati.
Primo: nel giro di pochi anni fra Mediterraneo e Giordano gli arabi saranno maggioranza. Ciò minaccia il carattere ebraico dello Stato di Israele, che non è negoziabile. Dunque o creiamo uno staterello palestinese a fianco del nostro, incapace di minacciarci, oppure dobbiamo tenere i palestinesi sotto controllo con la forza. E possibilmente divisi. La prima ipotesi resta il mantra della diplomazia ufficiale, la seconda corrisponde alle iniziative sul terreno, dall´espansione degli insediamenti alla caccia al terrorista nelle strade di Gaza City.
Di fatto, come oltre quattro anni fa spiegava il braccio destro di Sharon, Dov Weisglass, «l´intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutte le sue implicazioni, è stato rimosso dall´agenda a tempo indeterminato». Olmert non ha deviato dall´approccio del suo predecessore. La conferenza di Annapolis è stata una mascherata, cui ha partecipato più o meno consapevolmente lo stesso Abu Mazen, simbolo dell´impotenza palestinese.
Secondo: non esiste un campo palestinese unitario, né Israele ha interesse a che si formi, nella prospettiva demografica sopra evocata. Coerentemente, negli ultimi anni i governi israeliani hanno prima trattato Arafat come un leader inaffidabile, poi concesso una patente di affidabilità al suo pallido successore, sapendo che comunque Abu Mazen non dispone dell´autorità sufficiente a riunire i palestinesi. Quanto a Hamas, è solo una banda di terroristi che vogliono distruggere Israele. Risultato: anche se volesse promuovere uno Stato palestinese, lo Stato ebraico non potrebbe. Perché la fazione palestinese disponibile a battezzarne uno purchessia è troppo debole per controllarlo, mentre l´altra vorrebbe un solo Stato, ma arabo e non ebraico.
Terzo: in ogni caso i palestinesi non sono una priorità. Per il resto del mondo (arabi e islamici compresi), ma soprattutto per Israele. Non è certo Hamas che può distruggere lo Stato ebraico. La minaccia strategica è l´Iran. Non solo in quanto deciso a dotarsi di un arsenale atomico capace di rivaleggiare con quello (mai dichiarato) di Gerusalemme, ma anche in quanto potenza nemica capace di utilizzare i terroristi arabi e islamici per tenere Israele sotto schiaffo. Hizbullah, ma anche Hamas. Sicché oggi la battaglia di Gaza è sotto questo profilo uno scontro indiretto fra Gerusalemme e Teheran.
Si può respingere in tutto o in parte tale analisi. Ma possiede una sua logica. I palestinesi non hanno saputo opporvi una visione coerente e unitaria. Giacché ormai le loro organizzazioni principali, Hamas inclusa, sono delle mini-galassie in cui interessi particolari (spesso criminali), piccoli clan e bande di disperati si contendono le scarse risorse disponibili. Strette nella morsa israeliana. Mentre attori esterni, arabi (sauditi in testa) e islamici (vedi Teheran) usano i palestinesi per fini propri, spesso contrastanti.
La deriva dal nazionalismo all´islamismo che segna l´ultima fase di Arafat e l´ascesa di Hamas esprime la crisi dell´identità palestinese così come era stata reinventata dall´Olp a partire dagli anni Sessanta. E rafforza a Gerusalemme coloro che considerano vano inventare una nazione che non c´è. Figuriamoci affidarle uno Stato. Nessuno sembra in grado di riunificare le fazioni e i territori palestinesi. Né pare che la progressione dei coloni ebraici in Cisgiordania - che ruota sull´asse Gerusalemme-Ma´ale Adumim, destinato a bisecare i "bantustan" residui - possa essere arrestata.
Vista da Israele la guerra di Gaza non è dunque una crisi internazionale ma una partita domestica. Nel breve, per l´ovvio tentativo di Kadima e dei laburisti di sottrarre voti alla destra di Netanyahu alle elezioni del 10 febbraio. In prospettiva, per riaffermare che la questione palestinese appartiene alla sfera della sicurezza interna e basta. In questo senso Piombo Fuso è più un´operazione di polizia con mezzi militari che una vera e propria guerra.
Non a caso gli israeliani osservano con preoccupazione le reazioni dei "loro" palestinesi, ossia degli arabi che abitano nello spazio dello Stato ebraico, pur non essendovi davvero integrati. I quali peraltro restano allo stesso tempo refrattari a soggiacere a un´autorità palestinese, viste le performance di Fatah a Ramallah e di Hamas a Gaza. Per Gerusalemme, la saldatura fra le proteste nelle sacche arabe di Israele e quelle nei Territori va evitata ad ogni costo.
Anche fra i palestinesi la battaglia di Gaza ha connotati interni. Hamas provoca gli israeliani non perché pensi di batterli, ma per consolidare la sua fama di unica struttura combattente della resistenza palestinese, inconciliabile con il "Quisling" Abu Mazen. Il quale tifa nemmeno troppo segretamente per Israele, dato che da solo non potrebbe mai sbarazzarsi di Hamas (ma è piuttosto ottimistico pensare che ci riesca Olmert). Solo una prolungata guerra di logoramento a Gaza può riavvicinare, almeno provvisoriamente, le fazioni palestinesi in lotta. In nome dell´odio per gli israeliani.
La tragedia è che nessuna delle parti in causa, nemmeno la più potente (Israele), può raggiungere i suoi obiettivi strategici. E nessuna è abbastanza forte e sicura di sé per accettare un compromesso con le altre. La guerra continua. E non finirà con la fine di Piombo Fuso.
Per capire la guerra in corso, conviene inquadrarla sullo sfondo dell´opzione strategica perseguita da Israele a partire dal fallimento del vertice di Camp David e dei colloqui di Taba sullo "status finale", nel 2000-2001. Da allora, l´establishment di sicurezza israeliano, appoggiato dalla Casa Bianca, ha affrontato il problema/non problema palestinese a partire da tre postulati.
Primo: nel giro di pochi anni fra Mediterraneo e Giordano gli arabi saranno maggioranza. Ciò minaccia il carattere ebraico dello Stato di Israele, che non è negoziabile. Dunque o creiamo uno staterello palestinese a fianco del nostro, incapace di minacciarci, oppure dobbiamo tenere i palestinesi sotto controllo con la forza. E possibilmente divisi. La prima ipotesi resta il mantra della diplomazia ufficiale, la seconda corrisponde alle iniziative sul terreno, dall´espansione degli insediamenti alla caccia al terrorista nelle strade di Gaza City.
Di fatto, come oltre quattro anni fa spiegava il braccio destro di Sharon, Dov Weisglass, «l´intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutte le sue implicazioni, è stato rimosso dall´agenda a tempo indeterminato». Olmert non ha deviato dall´approccio del suo predecessore. La conferenza di Annapolis è stata una mascherata, cui ha partecipato più o meno consapevolmente lo stesso Abu Mazen, simbolo dell´impotenza palestinese.
Secondo: non esiste un campo palestinese unitario, né Israele ha interesse a che si formi, nella prospettiva demografica sopra evocata. Coerentemente, negli ultimi anni i governi israeliani hanno prima trattato Arafat come un leader inaffidabile, poi concesso una patente di affidabilità al suo pallido successore, sapendo che comunque Abu Mazen non dispone dell´autorità sufficiente a riunire i palestinesi. Quanto a Hamas, è solo una banda di terroristi che vogliono distruggere Israele. Risultato: anche se volesse promuovere uno Stato palestinese, lo Stato ebraico non potrebbe. Perché la fazione palestinese disponibile a battezzarne uno purchessia è troppo debole per controllarlo, mentre l´altra vorrebbe un solo Stato, ma arabo e non ebraico.
Terzo: in ogni caso i palestinesi non sono una priorità. Per il resto del mondo (arabi e islamici compresi), ma soprattutto per Israele. Non è certo Hamas che può distruggere lo Stato ebraico. La minaccia strategica è l´Iran. Non solo in quanto deciso a dotarsi di un arsenale atomico capace di rivaleggiare con quello (mai dichiarato) di Gerusalemme, ma anche in quanto potenza nemica capace di utilizzare i terroristi arabi e islamici per tenere Israele sotto schiaffo. Hizbullah, ma anche Hamas. Sicché oggi la battaglia di Gaza è sotto questo profilo uno scontro indiretto fra Gerusalemme e Teheran.
Si può respingere in tutto o in parte tale analisi. Ma possiede una sua logica. I palestinesi non hanno saputo opporvi una visione coerente e unitaria. Giacché ormai le loro organizzazioni principali, Hamas inclusa, sono delle mini-galassie in cui interessi particolari (spesso criminali), piccoli clan e bande di disperati si contendono le scarse risorse disponibili. Strette nella morsa israeliana. Mentre attori esterni, arabi (sauditi in testa) e islamici (vedi Teheran) usano i palestinesi per fini propri, spesso contrastanti.
La deriva dal nazionalismo all´islamismo che segna l´ultima fase di Arafat e l´ascesa di Hamas esprime la crisi dell´identità palestinese così come era stata reinventata dall´Olp a partire dagli anni Sessanta. E rafforza a Gerusalemme coloro che considerano vano inventare una nazione che non c´è. Figuriamoci affidarle uno Stato. Nessuno sembra in grado di riunificare le fazioni e i territori palestinesi. Né pare che la progressione dei coloni ebraici in Cisgiordania - che ruota sull´asse Gerusalemme-Ma´ale Adumim, destinato a bisecare i "bantustan" residui - possa essere arrestata.
Vista da Israele la guerra di Gaza non è dunque una crisi internazionale ma una partita domestica. Nel breve, per l´ovvio tentativo di Kadima e dei laburisti di sottrarre voti alla destra di Netanyahu alle elezioni del 10 febbraio. In prospettiva, per riaffermare che la questione palestinese appartiene alla sfera della sicurezza interna e basta. In questo senso Piombo Fuso è più un´operazione di polizia con mezzi militari che una vera e propria guerra.
Non a caso gli israeliani osservano con preoccupazione le reazioni dei "loro" palestinesi, ossia degli arabi che abitano nello spazio dello Stato ebraico, pur non essendovi davvero integrati. I quali peraltro restano allo stesso tempo refrattari a soggiacere a un´autorità palestinese, viste le performance di Fatah a Ramallah e di Hamas a Gaza. Per Gerusalemme, la saldatura fra le proteste nelle sacche arabe di Israele e quelle nei Territori va evitata ad ogni costo.
Anche fra i palestinesi la battaglia di Gaza ha connotati interni. Hamas provoca gli israeliani non perché pensi di batterli, ma per consolidare la sua fama di unica struttura combattente della resistenza palestinese, inconciliabile con il "Quisling" Abu Mazen. Il quale tifa nemmeno troppo segretamente per Israele, dato che da solo non potrebbe mai sbarazzarsi di Hamas (ma è piuttosto ottimistico pensare che ci riesca Olmert). Solo una prolungata guerra di logoramento a Gaza può riavvicinare, almeno provvisoriamente, le fazioni palestinesi in lotta. In nome dell´odio per gli israeliani.
La tragedia è che nessuna delle parti in causa, nemmeno la più potente (Israele), può raggiungere i suoi obiettivi strategici. E nessuna è abbastanza forte e sicura di sé per accettare un compromesso con le altre. La guerra continua. E non finirà con la fine di Piombo Fuso.
2 commenti:
se farebbero quello che GESU ci ha insegnato non ci sarebe la guerra.Egli ha detto;amatevi gli uni gli altri.finchè non seguiranno queste parole ci sarà sempre guerra.
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