A Praga il clima politico del gennaio 1969 era agitato dal tentativo di Husàk di allontanare Smkorsky (presidente del parlamento che godeva di molto credito tra i Cechi ed era, oltretutto, il principale alleato di Dubcek) dai vertici dello stato. Il pretesto usato da Husak fu quello dell’equa divisione delle cariche tra le due nazioni che componevano il paese. Smorsky accettò suo malgrado di lasciare la carica, ma i sostenitori della primavera di Praga si sentirono umiliati e traditi.In questa atmosfera di disillusione Jan Palach, studente alla Facoltà di Filosofia, si diede fuoco in Piazza San Venceslao nel primo pomeriggio del 16 gennaio 1969 in segno di protesta contro l’occupazione sovietica dell’agosto precedente. Morì giorni dopo in seguito alle ustioni riportate. Non aveva ancora compiuto 21 anni.
Egli aveva voluto protestare contro la soppressione delle libertà fondamentali nel suo Paese. Palach lasciò infatti una dichiarazione in cui spiegava che il suo suicidio era una protesta contro l’occupazione sovietica e soprattutto contro la censura, reintrodotta dopo l’effimera “primavera di Praga”.
Con il suo gesto sperava di squarciare la passività e la rassegnazione dei suoi concittadini dopo la “normalizzazione”, di lanciare un messaggio di supremo rifiuto che doveva toccare il cuore del suo popolo. Consapevoli del valore politico-simbolico di questa morte le autorità misero in piedi una campagna di disinformazione, che però non diede i risultati previsti. A nulla valsero infatti i tentativi di far passare Palach per uno psicopatico.
Scrisse Dubcek: “I funerali si trasformarono in una dimostrazione imponente a difesa della nostra politica riformatrice e di protesta contro l’occupazione sovietica”.Il 25 gennaio 1969 alle esequie un cielo plumbeo scaricò acqua e neve sulle seicentomila persone accorse da ogni parte del paese.
Il decano dell’università diede l’ultimo saluto alla salma dicendo “La Cecoslovacchia sarà un paese democratico solo quando il sacrificio non sarà più necessario”.
Per un giorno Praga fu in mano agli studenti. Nei mesi successivi il gesto di Palach fu imitato, fino alle estreme conseguenze, da un’altro studente, Jan Zajic (amico di Palach), il 25 febbraio, e da un operaio, Plocek, in aprile.
Palach però preferì non bruciare i suoi appunti e i suoi articoli (che rappresentavano i suoi pensieri politici), che tenne in uno zaino molto distante dalle fiamme. Tra le dichiarazioni trovate nei suoi quaderni, spicca questa:
“Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l’abolizione della censura e la proibizione di Zpravy (il giornale delle forze d’occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s’infiammerà”.
Jan Palach avrebbe potuto essere un cantante, un atleta o forse un uomo politico. Se solo i tank sovietici non lo avessero privato della sua “primavera” e della speranza in un futuro migliore